VINICIO CAPOSSELA ha scritto una storia in occasione di Piano City Milano Preludio 2020.

I pianoforti sapete sono creature domestiche... hanno bisogno di un tetto… e non si possono sporgere dal balcone, pertanto hanno partecipato poco anche alle suonate dalle pertinenze urbane in questi ultimi due mesi… però camminando nelle strade vuote. Così imbavagliati e con la museruola, uscendo per un breve giro dalle proprie cucce, talvolta si sono sentiti i loro suoni... ma per la maggior parte stavano silenti…
Durante il periodo più rigido della segregazione domestica, i veri abitanti della città sono stati i senzatetto. Improvvisamente avevano molto più spazio. D’altro canto, quasi tutte le strutture ospiti sono state chiuse, pertanto se la sono cavata come potevano. In un mondo mascherato sembravano gli unici esseri umani rimasti… in una sera di pioggia, mi è parso di vedere un gruppetto attorno a un bidone, un bidone in cui erano stati buttati un po’ di cerini di san Nicola che hanno la facoltà di donare la parlantina... la favella... la facondia… che è la fecondità delle parole…
Allora ognuno si mise a raccontare una storia… c’era Bottiglis, il peruviano che da anni stava sempre allo stesso angolo tra Scarlatti e Settembrini e nessuno aveva mai capito di cosa si occupasse in quell’angolo già dalle 9 di mattina, con la sua sigaretta e la bottiglia di birra, sempre al suo fianco, e poi c’era il Messia, che girava a volte scalzo, a volte con le scarpe e non si capiva dove le tenesse perché non aveva con sé alcun bagaglio mai. Non era mai appesantito da alcun ingombro, come invece lo Slavo, dalla statura alta e dal naso pronunciato, sempre oberato di scatoloni e di grandi borse a trolley… molti bagagli molto onore era il suo motto... e poi c’era il Salvatore che dell’incrocio aveva fatto la sua croce, e derideva i cittadini imbavagliati. Non c’erano più passanti per la sua elemosina, ma ugualmente era restato al solito posto. Rideva... «Allora tutti a cuccia! Vi hanno messo la museruola e ora tutti a cuccia dovete stare!». Rideva con la sua solita causticità verso il sistema, e lo Stato.
Intorno passavano soltanto i ragazzi delle consegne della Glovo, in bicicletta. Erano in gran parte stranieri e assicuravano i pasti caldi serviti a casa ai residenti. E poi c’erano i tram… Correvano come sempre da un capo all’altro dell’oscurità. Correvano nel buio. La strada era libera per la loro corsa verso lo strike. Erano carrozze costruite nel 1928… ben accessoriate, la lampadina, i sedili di legno lucido, le vetrate incorniciate dalla zigrinatura per i finestrini. I tram continuavano a passare come a ricordare del vivere civile. Il fatto che scorrono vuoti li rendeva sacri, sottratti all’uso, ma presenti a ricordare il vivere cittadino, la gentilezza, le buone maniere, una certa aristocrazia del passato. Il loro clacson che suona come un campanello di albergo notturno, il fanale a monocolo sul muso. Restavano i tram a ricordarci della città. I tram sono molto in sintonia con i pianoforti, con gli ombrelli e con i gemelli... sono tutti oggetti che hanno richiesto un certo ingegno per essere creati, perché non importa solo che siano pratici, ma devono essere anche belli... devono ricordarci una certa civiltà del consorzio umano… una gentilezza... non soltanto formale, ma di sostanza.
Come richiamato dal tram, si avvicinò al bidone un signore con un pianoforte sul carretto, un pianetto ambulante, di quelli fatti per portare le musiche nelle strade da quando ancora non c’era la riproduzione… la musica colta per strada è inattesa, una canzone può aprire voragini nel cuore, può riaprire le trincee di guerra, o la nostalgia di un paese lontano... o un volto amato... la musica trovata per caso ha questa possibilità, spesso preclusa nel grande inquinamento acustico.
Il morbo che aveva colpito la città aveva la caratteristica di privare del gusto e dell’olfatto, ma aveva raddoppiato la sensibilità uditiva, pertanto si era tutti molto più sensibili alle note... Il signore iniziò a raccontare la storia di quel pianetto, di come lo avesse trovato in un magazzino di pianoforti abbandonati, dopo la guerra... perché sapete, quando perdono casa i pianoforti diventano orfani, e se ci si scorda di loro, anche loro si scordano… — «Ah! Avreste potuto trovare anche lui in Lubecca. Lì c’è grande magazine di Cermania... lì costare poco... tutti vecchi e ammassati... pianoforte... stare...» — «Vicino a un bosco, ad un canale. Lì dentro venivano stipati i vecchi pianoforti di tutta la Germania. Era freddo, come una tomba, e illuminato con lampade spettrali... i pianoforti giacevano esausti, nelle casse impolverate. Erano di marche innumerevoli, e di vari domicili... di Lipsia, di Dresda, di Berlino... Tutti orfani di case... ma tutti con un nome... Kimmermann... Kapps... Dutsen... Bechstein. Pianoforti da birrai, da fumo di carbone... abbandonati. Piani a baionetta... piani con spinetta... piani di corvetta... marcette stinte di pianisti estinti... piani a rulli... e rotopiani... i formidabili prussiani... Ma... silenzio sui martelli... sull’avorio in scalinate, sui rulli a manovella, sui feltri impaludati... Silenzio sulle dentiere d’ebano... impilati... sui capodogli arenati... giacevano là come casse armoniche disinnescate...
Però in una notte, in una umida notte di Natale, che come per rinvenire, per festeggiare ancora con un ultimo galà... un pianoforte Dutsen, vecchio, sottile, snello... di quei, damerini affabili... da monocolo, con ancora un certo smalto sulle tavole... Piano piano, ruotando le sue ruote da ballo, da gran pattinatore, avvicinò le gambe nere e sottili, da sera... a quelle più grosse, a colonne larghe, di una certa pianofortessa Blutner! Aveva ella un’aria dignitosa, vedovile. Era di color castano, con lucide striature da pelliccia sul dorso, un poco stinto... e.… unghie bianchissime d’avorio, percorse da belle venature... propriamente una signora, di quelle d’altri tempi, da salotto, romantica per certo... sognatrice.
Quel Dutsen, risvegliato gli si fece più vicino e, come leggendole tra i feltri un’antica malinconia nascosta, sbatté gli occhi di velluto e disse... «Signora, fraulein... non stia a pensare... a quei notturni che non ha più̀... a quella sua casa, ai bei tappeti... andati anche loro, come noi. È la vita, sa! La guerra! Non ripensi più̀ a quelle arie (di Berlino) ... ai saloni austeri... a quei bei spigoli di melodia, alla sua voce ferma d’un tempo, e cristallina... S’è perduta, sa! Ed anche noi, ora qua... Tutti venduti, come siamo, all’incanto! Signora, fraulein! Via... Padroni non ne abbiamo più, e case nemmeno... e se gli altri ancora si sono scordati di noi... scordiamoci anche noi di quel che è stato e ci tocchi anche a noi per una volta di ballare».
E così sussurrando, alzò d’un tratto quella sua voce stonata e metallica e scordata, e rivolgendosi agli altri, sonoramente li invitò: «Herr Kaps... via ci suoni col suo rullo una Berciosa! E voi con l’autopiano... col nastro americano! In piedi, forza sull’attenti! I verticali scapoli, obbedienti! Alla festa, forza, alla canzone! Via! Una melodia! Cantino le note a tre alla volta... ognuno come può̀... Attenti Eroici! O eleganti! E voi laggiù̀, caliginosi... Accendete le candele! Voi piani senza voce, stonati ubriachi... sfasciati, cani senza più̀ padroni, non state così impalati, sull’attenti come maggiordomi! Forza, andiamo! Sull’aria di una musica involiamo!».
Si mossero allora i rulli e le spinette e fu un groviglio... fu un naufragio, un fragore di sciampagna... di bicchieri infranti... che riempì il salone, e il Dutsen la diresse... e alzarono in gran coda il coperchio a modo di vela, di trinchetto... come per prendere l’aria della musica... in mareggiata, i pianoforti! Ciondolavano all’impiedi... scompagnati, i verticali in frac... le mezzecode in tight... coi loro monocoli e malanni... e i vecchi grand-marescialli oblunghi, che tossendo da dentro ai cassettoni... presero a muoversi come granchi nel salone... pattinando tutti insieme, chi cantando, chi nuotando... chi ruotando. E fu a quello spettacolo allora, che la signora Blutner commossa... piena di riconoscenza si abbandonò del tutto al legno di quel così intraprendente verticale... e una lacrima le discese tra le cerniere del coperchio... Il Dutsen, galantemente, gliele asciugò col panno verde, e dopo la invitò a danzare. «... Signora Blutner... le sussurrava... non stia più a sentire... sfiori i miei tasti, prenda i miei baci... se ci hanno venduti tutti all’incanto, ora all’incanto ceda il suo cuore...». Ed ella le ripose «... Herr Dutsen, che galante la canzone... certo all’incanto, cedo il mio cuor...».
Ecco, come d’incanto anche lì vicino alla stazione, all’udire quella storia e al suonarla, si iniziarono a sentire i suoni dalle casse legnose dei pianoforti, in ogni cortile, per strada, dalle case, si aprirono le finestre e i pianoforti iniziarono a suonare ognuno come poteva… i suoni si spandevano e nessuno capiva bene da dove venissero... erano i pianoforti da ogni angolo dove erano stati riposti, che riprendevano voce, dai salotti, dai garage, dai magazzini abbandonati, dai sottoscala, dalle camerette dei bambini diventati grandi… dagli ospedali dove erano stati donati, e anche dall’atrio della stazione e dell’aeroporto, dove pure erano stati collocati. Dalle birrerie chiuse e dai locali notturni, dai piano-bar senza più clienti, dalle alcove senza più amanti, e allora tutti capirono quanto i pianoforti avessero reso migliore la nostra vita e si affacciarono alle finestre e piano piano… un senso d’amore si sparse nella città. Cessarono le delazioni, le accuse, le cose urlate per convenienza... la gente si fece coraggio e si fece un poco più giusta... come le quinte giuste che gli accordatori sempre cercano nell’artificio del sistema temperato... e tutti si temperarono un poco per potere suonare insieme e spartirsi la vita, assieme alla musica...
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