“Non fare la vecchia.”
Modena, 27 febbraio
Da ragazzo ho fatto il Fermi. Gli ultimi due anni delle superiori. Il Fermi era il fiore all’occhiello della provincia, quando fu istituito. Era un istituto tecnico ma aveva gli armadietti e le autogiustificazioni, come l’università. Ci si studiava elettronica (i cosiddetti stagnini) e chimica (i cosiddetti puzzoni). Io giocavo nei puzzoni, ma sempre in apnea perché venivo dal campionato minore del professionale di Reggio Emilia, che manco arrivava al diploma dei cinque anni. Nella sezione D c’era un assistente di laboratorio che si chiamava Ronchetti. Aveva gli occhi azzurri di ghiaccio e il baffo alla Charles Bronson, e nell’angolo della bocca la sigaretta sempre accesa. Allora si fumava anche in classe. Una volta per provocazione lo ammonimmo: “Ronchetti, lo sa che il fumo fa male alle prestazioni sessuali?”. Lui rispose pronto, senza cambiare espressione: “Pensa mo’ te san fumessa menga!”.
“Ronchetti però era un po’ canaglia. Io mi impegnavo, ma lui non mi dava nessuna soddisfazione,” ricorda anni dopo Aleardo Menotti, il bel tenebroso della classe.
Io invece non mi impegnavo, mi imboscavo sempre e for- se per questo mi prese in simpatia. Mi tirò anche su in macchina per andare a Marano a mangiare le tigelle per la cena di fine anno. Mi disse “Questi sono anni che ricorderete. Si ricordano sempre quando sono passati”. “Al sarà axè,” ha concluso Aleardo.
L’avevo incontrato davanti al bar. Erano passati vent’anni. Lui era identico a quando andavamo al Fermi, quando era dark, critico di cinema e fotografo e fisso al Cineclub 7 B. Qualche volta si presentava a scuola in Duetto Alfa Romeo. Era uguale, solo coi capelli grigi, ma l’impermeabile e le scarpe e la postura erano gli stessi. “Ci sono le nuvole,” disse, “sono meteoropatico. Adesso vado”, e sparì nella via Stella.
Il Lodz intanto era rimasto fuori, in strada.
“Vedi, in questo genere di posti, io non ci vado più. È pieno di gente che vuole restare giovane per sempre. Fanno la vecchia. Fanno finta di niente. Fanno finta che il tempo non passi, che non gli capiti niente,” disse, e a proposito dei cambiamenti di abitudini portati dalla malattia aggiunse: “Non posso dire che ti ci abitui. Non ti ci abitui mai. Io lo sento bene quel vuoto. So che allora sarebbe il momento di fumare. Sarebbe il momento che vorrei bermi una cosa”.
Per tutta la vita il Lodz non si era risparmiato niente. Beveva la mattina il caffè e il Montenegro. Fumava di continuo. La sua mamma me lo diceva, bloccata com’era nel letto della canonica: “È la mia pena. Quando non ci sarò più io cosa sarà di lui?!”. Il Lodz sdrammatizzava: “Ma piantala, mà”. Ora però dice: “…quel che mi fa più incazzare è che alla fine aveva sempre ragione. Battezzava la gente subito. A prima impressione. Me lo diceva. Io mi infastidivo. Ma poi mesi dopo quando mi arrivava la fregatura non potevo dire che si era sbagliata. È che un genitore sa, da genitore. Quando sei genitore diventi due persone, tu e il genitore che sei”.
La piccola Agnese intanto era arrivata in casa. Era una principessa. La casa prendeva vita al suo arrivo. Non distingueva bene le persone vere da quelle di fantasia. Parlava alle bambole e aveva una compagnia di amici immaginari. Teneva un bambolotto in braccio che piangeva. Tutta seria Agnese gli diceva: “…devi smettere di piangere, non posso tenerti sempre in braccio che mi si stanca la schiena”.
Forse per via della sofferenza era una persona grande in un involucro di bambina di quattro anni. Appena venuta al mondo il Lodz aveva approfittato per festeggiare. La festa durò per tutto il primo anno. Aumentavano i giorni e le bottiglie vuote nascoste. Nutless disse che sembrava invitasse la gente su in casa per avere la scusa di bere.
Fu un regalo del Signore la Agnese. Poi le cose andarono male. Lui ora dice: “Non ne voglio parlare, è solo che non sono stato bene… ora sto bene. Basta. Non ci voglio pensare più”. E così del tumore che lo ha succhiato da dentro non ne parla se non nei termini di “quando non sono stato bene”.
“Ero andato al pronto soccorso perché non respiravo. Pensavo di stare dentro un giorno e di tenere il tubicino un mese. Sono stato dentro un mese, e il tubo l’ho tenuto due anni e mezzo. Ma adesso è finita. Non ne voglio parlare. Ci sono cose che dopo non puoi più sopportare. Vedi su questa poltrona ci sono stato quattro mesi. Dopo non sono più riuscito nemmeno a starci seduto.”
Nessuno credeva potesse farcela. Era arrivato a essere uno scheletro che camminava. Non aveva più voce e parlava col tubo nella trachea. Nonostante tutto ha continuato sempre a suonare. Come poteva.
“Ma ora non ti posso dire. Non me lo ricordo più. La Francesca ogni tanto mi dice quando stavi così e così, ma io non me lo ricordo più.”
La Francesca era minuta e forte, con uno sguardo sveglio come la bambina. Sono state loro di sicuro a dargli la forza. Non si è mai dato per vinto. “Sto poco bene.” Solo questo. “Adesso sto poco bene.” “Quando stavo poco bene,” dice ora. “Ma certo, quel vuoto… ma poi penso che ci sono state cose peggiori e così non ti abitui al vuoto, ma nemmeno ti ci impunti.”
Io lo guardo il Lodz, e riconosco man mano le espressioni e la faccia. Qualcosa se l’è succhiato da dentro. Ma lui è rimasto. Asciutto. Aguzzo. Affilato in ogni sua parte. E quest’affilamento gli dà a volte anche un’ombra di malignità. Una maschera solo apparentemente cattiva. I ricci gli si sono imbiancati. È sempre stato magro. Gli dicevano sei troppo magro. “Ho capito,” diceva lui, “ho capito… ma… sono io.”
Ha una strana curvatura nella schiena, come ha sempre avuto. Gli dà quella postura sua particolare sul piano. “Certo, naturalmente mi piace Glenn Gould. Jarrett ha cercato di imitarlo in ogni maniera, a cominciare dalla sedia. Ma a me non interessa molto la musica già scritta. Mi interessa di più non sapere cosa succede.”
“Monk?! Monk… tu lo ascolti e che dire? Non c’è un musicista occidentale che non è stato influenzato da Monk, ma lui era come prigioniero delle sue note. Doveva fare quelle. Non poteva permettersene altre. È come uno che impara l’inglese solo con 200 parole. E però con quelle fa tutto. Non sbagliava note, e le note che non faceva erano quelle giuste. Il modo di suonare di uno schizofrenico.”
“Ho visto che usi spesso la tonalità di Fa. Anche a me piace molto. Il Mi ti apre una finestra verso il cielo, però poi devi avere voglia di andarci. Il Fa è più discreto. Il Do diesis minore e il Sol diesis minore sono impegnativi… Il La minore e il Mi minore sono più disinvolti. Il Do è maestoso. Il Sol è togo. Il Si è lofi. Chissà perché solo a Modena si divide il mondo in togo e lofi. Togo è bello, lofi è scarso. Quel che per gli altri è figo, per noi è togo.
Ho sentito dire una volta che Togo era un ammiraglio giapponese, e McLaughlin uno americano. Vennero a battaglia nel Pacifico durante la seconda guerra e vinse Togo. McLaughlin si pronuncia Lofin. A levargli il Mac rimane… Lofin… e da quello è venuto lofi. Però solo a Modena funziona così.” Così ha concluso la sua dissertazione Luciano Bruni, detto Lodz, pianista, enigmista, pensatore.
Come togo e lofi siano arrivati in bocca ai geminiani non si sa. Della festa di San Gimignano mi ricordo, quando facevo ancora il Fermi. Una fiumana di gente nel corso in gennaio, e poi la cripta del duomo aperta piena di lumi, che sembrava così alta e gotica. Wiligelmo, le bestie nella pietra chiara. Sembrava una riunione attorno all’altare per proclamare una nuova crociata, impugnando la spada del Graal.
Per il resto la città la sentivo arrivare dentro la mansarda di via Vignolese. Quegli uccelli tra quei condomini che iniziavano presto a cantare, quando ancora era buio e il giorno stava arrivando. D’inverno c’era una stufa a gas messa nell’ingresso. Nella camera si sentiva freddo ed era dura alzarsi per andare in bagno. Nel bagno c’era una vasca piccola, di quelle a sedere. Il primo pianoforte che ho avuto si chiamava Strindberg e l’ho comprato da Lenzotti.
“È ancora vivo Lenzotti?”
“È vivo, è vivo. Viene da me ad accordarmi il piano anche adesso. Lo fa soprattutto per farsi due chiacchiere, che non gli piace starsene a casa.”
Prima di avere lo Strindberg il piano lo andavo a suonare dal Lodz, in canonica. Era una stanza grande in via Carlo Sigonio. C’erano gli attrezzi canonici e questo piano vecchissimo, enorme e scordato. Coi tasti bruciati dalle cicche. Ci trovavamo lì dentro, con la batteria e il contrabbasso.
L’edificio un labirinto di camerate vuote. Un tempo era stato una specie di collegio per ragazze cattoliche ma ora ragazze non ce ne erano più. Di tutte le stanze vuote solo una era rimasta con la luce accesa. Quella dove mamma Ines riposava e vegliava giorno e notte senza potersi sollevare. A volte arrivavo di notte, avevo le chiavi e salivo. Il Lodz non c’era. Giocava a carte. Si attardava al circolo Vienna, o in qualche altro posto. Era inverno. La mia bohéme. Le strade erano prese dalla foschia. Io arrivavo in via Sigonio alle tre di notte e trovavo la luce accesa. Ines mi riconosceva dal passo. Diceva: “Dov’è Lucio? Non è ancora tornato?”. Poi diceva a me di servirmi. Se volevo mangiare qualcosa in frigo ce n’era. Ci mettevamo in chiacchiere fino a che il Lucio arrivava.
Sotto Natale mi presentai con i regali di Natale e il cappuccio rosso da Santa Claus. Il Lodz era stato iscritto alla facoltà di Matematica. Era stato un allievo brillante ma aveva abbandonato gli studi. Ines si spiaceva molto di questo e continuava a preoccuparsi per quando non ci sarebbe più stata. A volte in quelle camerate ci finivamo a dormire coi fratelli Lazzarini, tronchi duri. Come fossimo stati marinai in caserma. Guardavamo i soffitti alti per la luce che arrivava dalla strada e ce la raccontavamo. Poi tutto l’edificio rimaneva alla mamma Ines, al Lodz e al suo piano. Jarrett era il suo eroe, il Jarrett del KölnConcert, degli standard… di The Melody at Night, With You. Il Lodz gli aveva preso quel modo di impennarsi sulla tastiera, quell’ondeggiare da minuscolo troll. La sua musica era sempre aperta alla sorpresa.
Ora sono passati molti anni da quella canonica e la sera del concerto al Comunale Pavarotti avevo ritrovato il Lodz. L’avevo distinto nella prima fila, nella commozione del finale. E non potevo quasi credere a quell’abbraccio pieno di reciproca riconoscenza.
In gabbia ci era finito Guido Montero, il socio ballerino della balera di Maldonado: il famoso Florida. Guido Montero è l’amico per sempre. Quello a cui puoi rivolgerti in caso di trasloco, o in caso di legittima difesa, o in caso di guai. Era andata così da subito, fino a quando finii a dormire nella stanza dei suoi bambini, dopo che le cose in casa mia si erano messe male. Ora era lì nella gabbia. L’abbraccio del Teatro comunale ne conteneva molti altri con cui riconoscersi nella penombra.
Certo non si inizia dal Comunale Pavarotti. Io ho iniziato dal Vienna. Un circolo, un rock club alternativo. Erano tutti dark e rockettari lì dentro. La prima volta che mi presentai con le mie canzoni tristi, il piano elettrico messo in mezzo alla saletta, e il contrabbassista rosso di capelli che cercava di decifrare gli accordi scritti sul tovagliolo, la maggior parte se ne uscirono schifati. Uno, passando davanti al piano, mentre io gli vedevo solo gli anfibi, mormorò a denti stretti: “Siete la morte”. È così che è cominciata la storia, e da allora, mai più era capitato di riconoscersi in un teatro.
Questo concerto è stato un filo annodato partito da allora. Il palcoscenico è diventato la chiave di chiusura dell’abbraccio circolare dei palchi all’italiana. Guido era nella gabbia e io intanto riandavo ai binari della stazione piccola, dietro via Archirola, dove la notte di maggio, quando gli uccelli cominciano a cantare al mattino presto, e su tutta la pianura sembra che soffi l’aria del Rio Grande, vennero le note della serenata dell’Ultimo amore. E così tornarono in quella notte del Comunale. La Regina, nascosta tra il pubblico, riandava anche lei a quell’amaca. L’amaca che io conobbi gelata dopo il suo addio, dopo la sua fuga oltremare, nascosta dietro a un indirizzo-indizio trovato sul comò. L’amaca dondolante al lampione marchiato nel vetro dalla birra Sans Souci. E poi fu la volta di Nutless, delle sue riparazioni tv nel negozio dei fra- telli Martelli. Quando ricevevano le loro chiamate dalla via Pergolesi. E a chiamare era Scafardo… “Songhio Sca-fa-rdo, telefono per la televisione…” “Sì, l’ascolto, che problema ha?”, “Me l’hanno arrubbata”, e poi le fontane di Berlucchi con Nutless, e la lotta giapponese di fronte al Florida mentre nevicava. Sono Red Dragon… sono Mazinga… uaaaaa!!
Ed allora, diocan, vennero i carabinieri, aggiunse Guido Montero più tardi, nel raccontarla. E intanto preparava la caraffa di mojito dietro al banco del Novi Florida che è ora ubicato vicino alla Bruciata, e non si sa se belle di notte ce ne sono più dentro o più fuori. E insomma in mezzo a tutto quell’abbraccio, avevo distinto nella prima fila il Lodz. Era cambiato, ma gli ridevano gli occhi allo stesso modo. E così ce la passammo insieme. Fino alla notte dopo, quando ter- minammo in quell’altro locale, dove la gente fa la vecchia, e vuole rimanere giovane per sempre.