In occasione del decimo anniversario della pubblicazione di “Marinai, Profeti e balene”, si propone il cofanetto in edizione speciale contenente due cd e un dvd. In quest’ultimo è possibile trovare il documentario registrato da Jacopo Leone dal titolo “The Belly of the Whale – Viaggio al centro della balena”, che svela i retroscena della preparazione dell’opera, oltre agli estratti del concerto del 31 luglio 2011 a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica con ospiti speciali. Infine, due bonus tracks. E’ compreso inoltre il libretto con testi, diario di bordo e note di produzione.
Regia: Jacopo Leone – Montaggio: Federica Italiano
“Marinai, profeti e balene”, una storia
Quella di Marinai, profeti e balene è una storia che viene da lontano. Per i temi trattati, per la molteplicità di atmosfere e la complessità di riferimenti questo doppio disco è un’opera che ha avuto bisogno di un lungo periodo d’incubazione, di un tempo abbastanza ampio per far decantare fasi esistenziali e musicali diverse, passioni letterarie di una vita ed esperienze umane successive, che solo dopo una lunga sedimentazione hanno trovato una loro necessità e coerenza nell’universo immaginario del disco.
Foto Elettra Mallaby
I primi passi
«Se proprio vogliamo trovare, non una data, ma almeno un periodo da cui far procedere il lavoro vero e proprio – dice Vinicio Capossela – possiamo dire per comodità che tutto ha preso un’accelerazione al termine della tournée negli Stati Uniti durante la quale ho ultimato la registrazione dell’album “Da solo” (2008). In quel viaggio sono infatti venuto a contatto con un’America dove si avvertiva ancora la presenza di un’epica biblica, un po’ parente di quella di Melville o di Sherwood Anderson, che infatti stavo leggendo in quel periodo. Ricordo che di ritorno, facendo scalo a Londra presi una copia di Moby Dick in inglese».
Se le suggestioni americane e melvilliane hanno avuto un ruolo importante nel fecondare certe idee ancora in divenire, tuttavia ben presto è un’occasione materiale a mettere Capossela sulla rotta di Marinai, profeti e balene. Quando per la Giornata Mondiale del Libro del 2008 promossa dall’Unesco prepara a Genova un reading sul lato biblico di Moby Dick, sul Libro di Giona e, più in generale, «sulla letteratura di mare, quella cioè che espone di più l’uomo al suo destino e mi ha ispirato almeno dai tempi di Canzone a manovella» (2000).
Il reading ha poi preso corpo in occasione dell’Andersen Festival di Sestri Levante, che nel 2008 aveva come tema «la memoria dell’acqua». Lì, nel corso di un concerto reading dal titolo Storie di marinai, profeti e balene, Capossela ha suonato su una chiatta in mezzo al mare nella Baia del Silenzio, inserendo in scaletta inediti nati espressamente per quello spettacolo, «passi di Moby Dick o della Bibbia parzialmente musicati o declamati in forma di “predica musicata”». Questo strano ibrido di canzone con narrazione si è poi sviluppato fino ad assumere la forma di alcuni brani del nuovo disco, come I fuochi fatui, un pezzo che rompe il recinto della canzone presentandosi piuttosto come una sorta di evocazione musicale. In altri casi invece, sempre in quel contesto, l’autore ha messo in musica brani già presenti nelle pagine di Melville o da lì liberamente tratti, che nel tempo sono divenuti canzoni come Il grande Leviatano, Oceano oilalà, Billy Bud, ma anche Job, tratto dal Vecchio Tetsamento, e Printyl, liberamente adattato da Scandalo negli abissi, un racconto di Louis Ferdinand Céline.
Lo spettacolo è poi stato replicato in altre occasioni e quando Capossela ha iniziato il lavoro di scrittura vero e proprio di Marinai, profeti e balene, all’inizio del 2010, ha deciso «di conservare il nome del progetto allargandolo a tutta una serie di episodi sempre legati alla letteratura, ma più mediterranei, ancestrali. Innanzitutto Omero e i temi sollevati dalla figura di Odisseo». Sarà infatti l’immaginario omerico fino all’ultima avventura dell’Ulisse di Dante a costituire la spina dorsale del secondo cd di Marinai, profeti e balene, così come le atmosfere melvilliane hanno ispirato il primo.
La produzione
Insieme all’ingegnere del suono e coproduttore del disco Taketo Gohara, che con Capossela aveva già lavorato in Da solo e Rebetikos Gymnastas (in uscita dopo Marinai, profeti e balene), e ad un’altra figura fondamentale per questa opera, il compositore e arrangiatore Stefano Nanni, Capossela ha iniziato nell’estate 2010 nei vecchi studi di Radio Capodistria, a Koper, in Slovenia, la prima fase di pre-produzione.
La vera innovazione produttiva, dice Capossela, è di «aver costruito il disco un po’ come si fa con una barca, partendo da uno scheletro, che in questo caso non poteva che essere il pianoforte a coda lunga, che ha già la forma del capodoglio». All’inizio di ottobre un vecchio pianoforte tedesco degli anni Trenta, marca Seiler – «l’ho scelto per la forma e anche soprattutto per la sua assonanza al vocabolo inglese sailor» – è stato issato a 80 metri d’altezza sul mare, nella sagrestia dell’Assunta, presso il Castello Aragonese di Ischia. Qui «tra lo stridio dei gabbiani e i fantasmi del mare» si è unito alla piccola ciurma anche l’accordatore del Seiler, Egidio Galvan, e sono stata registrate le tracce piano e voce.
Dopo il primo scheletro sono stati scritti gli arrangiamenti, «proprio come quando si mette la velatura all’imbarcazione». La prime vele sono state le parti dei cori, «un’innovazione per me dal punto di vista musicale», che spaziano dalle grandi arcate gotiche dei cori classici di Il grande Leviatano e I fuochi fatui, interpretati dal Coro degli Apòcrifi di Roma composto da 16 elementi tra soprani, contralti, tenori e bassi; ai cori da ciurma dei Drunk Sailor in Billy Bud; dai cori di voci bianche del Coro dei Mitici Angioletti ne La bianchezza della balena; all’ancestralità femminile del coro di Valeria Pilia in Calipso; fino alle coralità anni Trenta delle Sorelle Marinetti in Printyl.
Insieme ai cori, la ciurma ha fatto ricorso anche ad alcune partecipazioni vocali straordinarie come quella di Daniel Melingo, cantautore argentino con voce da sopravvissuto degli abissi; quella di Psaradonis, lo Zeus con la lyra cretese; o quella di strumenti che evocano la voce umana come le Ondes Martenot nel brano Le sirene.
Allo scheletro della barca e alle prime vele è stata poi data completezza con una molteplicità di strumentazione. Strumenti classici come il fagotto, il controfagotto, l’arpa, il contrabbasso, la viola, l’oboe d’amore; e strumenti più particolari come il teremin ad onde elettromagnetiche; o il grande “freak instrument” creato dai Cabo San Roque, un gruppo di Barcellona che ha inventato un’orchestra meccanica, una gigantesca apparecchiatura che fa suonare le ance.
A consolidare la struttura dell’imbarcazione hanno contribuito anche il percussionista brasiliano di New York Mauro Refosco; il grande contrabbassista Greg Cohen, presente in cinque pezzi; il chitarrista Marc Ribot; il giovane Francesco Arcuri, musicista elettroacustico-sperimentale che ha prodotto campioni, rumori e suonato la sega musicale; e poi Antonio Marangolo, Jimmy Villotti e Ares Tavolazzi musicisti storici nell’avventura musicale di Capossela.
Nella terra di Zeus
Alla fine d’autunno la ciurma di Marinai, profeti e baleni sbarca a Creta per una tappa fondamentale sulla rotta del compimento dell’opera. Nella terra del mito Capossela era già stato per scrivere i pezzi omerici e in quell’occasione aveva avuto modo di ascoltare i dischi di Psaradonis, alias Antonis Xylouris, classe 1942, una leggenda della musica cretese, lo Zeus della lyra. «Superfluo dire che sono rimasto folgorato dalla voce gutturale e dal suono evocativo e profondamente ancestrale della lyra di quest’uomo che vive vicino al monte Ida, sotto la famosa grotta dove il mito vuole che sia stato allattato Zeus».
Nello studio Eliotrofio a Heraklion, alle falde del monte Ida, senza leggere la musica e senza l’ausilio di cuffie, monitor e quant’altro, Capossela, Alessandro “Asso” Stefana alla chitarra, Psaradonis alla lira e tre suoi figli al lauto, l’oud, altri strumenti a corda, vasi e tamburi vari, disposti in circolo hanno registrato Job, L’aedo, Dimmi Tiresia e Vinovinocolo.
L’Opera
Alla fine ogni canzone ha una sua fisionomia, una sua solida struttura particolare. Per ogni brano è infatti stato scelto un suono o uno strumento che ne caratterizzassero un’evocazione particolare, che corrispondesse al testo e ad un’emozione. Si spiega così il ricorso allo studio delle armonie celesti di Keplero o ai gamelan di Bali campionati da un noto etnomusicologo tedesco.
Indubbiamente la scelta della scaletta non è stata facile. «Nessuno di questi pezzi poteva rimanere fuori, l’opera li riguardava tutti. Poi stabilire in che modo li riguardasse non era affatto chiaro. A cose fatte posso dire che il fatto che dovesse stare in due supporti l’ho trovato anche giusto. Trovo che siano complementari, ma con personalità diverse. Il primo, sia nei temi sia nella realizzazione musicale, è più biblico, oceanico, ha un immaginario d’alto mare, mentre il secondo è mediterraneo e privilegia l’epica omerica. È proprio il caso di dire che siamo di fronte all’opera che s’impone al suo autore».
Marinai, profeti e balene
Le grandi opere, quelle che poi negli anni chiamiamo con rispettoso ossequio i classici, hanno la particolarità di essere imprendibili, inesauribili, di non finire mai. Nessuno riesce a chiuderle con soddisfazione, a pescarle e riportarle alla ragione. Per questo, nonostante i mezzi sconsiderati che ogni epoca gli mette dietro – fini ermeneuti e sapienti filologi – attraversano il tempo e ci sembrano sempre più sfuggenti. Per quante volte possiamo leggerle, per quante volte possiamo attraversarle, spiegarle, ebbene, la navigazione successiva ci porterà altre considerazioni, altre sensazioni, altre rotte.
Da questo punto di vista le grandi opere sono come la balena bianca. Non c’è e non ci sarà mai alcun Achab che potrà riportarla arpionata sulla terra ferma, mostrarne la carcassa ed illuminarne il significato. È il loro destino, decretato da millenni. La balena come l’opera è un enigma tanto più enigmatico quanto più coniuga chiarezza della forma e imprendibilità del senso, un segno che eccede sempre i limiti della caccia e dell’irragionevole ostinazione che si abbandona comunque all’inseguimento.
Forse il sollievo che emana da queste inesauribili battute sta proprio qui. Dallo scacco in cui è messa la nostra propensione razionale ad esaurire gli oggetti della nostra visione, della nostra speculazione, della nostra emozione. Quasi che la soddisfazione dell’aver capito, possa sostituire il piacere dell’aver sentito. Quasi che la realtà dovesse anch’essa essere qualcosa da consumarsi in fretta, con compulsione, per passare il prima possibile ad altro, altri oggetti, altre emozioni e altre visioni. Invece le grandi opere sono sempre un poco discoste, dislocate rispetto alle nostre proiezioni. Per quanto vi agiamo con riflessi intellettivi, non riusciamo ad esaurirle, additarne un significato definitivo, a imprigionarle. E così il sollievo porta un po’ d’aria nel nostro cervello, che finalmente può emendare le leggi della razionalità generale e divagare in movimenti sensitivi e libere circonvoluzioni.
Questa è una premessa spontanea ma necessaria, perché l’opera di cui vogliamo provare a parlare è della stessa sostanza delle grandi opere di cui si nutre: il Vecchio testamento, Moby Dick, l’Odissea, Billy Bud, Lord Jim, la Divina Commedia, ecc. ecc.. Che si può dire di esaustivo su Marinai, profeti e balene? È difficile dirlo, anche dopo innumerevoli ascolti. Succede semmai che uno si ritrovi di notte a fischiettarlo sul liminare dei sogni, ma sul perché, proprio non sembra possibile avanzare ipotesi. Forse solo adombrarle.
È così. Punto. La sera si spegne la luce, si chiudono gli occhi e la musica parte, il viaggio comincia. Gli echi si rincorrono una volta abbassata la soglia vigile della veglia, la mente divaga e i brani si mescolano in un unico impasto di una coerenza che sfugge all’analisi, ma forse non alla meraviglia. Ogni brano è un’emozione, un viaggio a sé, ma tutti sembrano tenersi tra loro con rimandi ed echi, rime e dissonanze che confluiscono nello stupore del canto finale delle sirene.
Eppure si capisce subito che, per esempio, tra la prima e la seconda parte c’è una cesura, una pausa che segna un passaggio di scena. Nella prima aleggia un’atmosfera oceanica, plumbea, da alto mare, con grandi masse d’acqua imponenti e una bonaccia inquieta. Nella seconda invece un’aria più mediterranea, un mare più confortevole e un cielo più limpido. Ma lo splendore del sole non attenua il mistero della prima scena, anzi. Prima che le tenebre della notte divenissero il momento dell’arcano, per gli antichi era il meriggio la scena dello stupore, l’attimo in cui gli déi si manifestavano. La luce solare aumenta l’ambiguità della visione con la sua evidenza. Trattiene in sé il mythos, il racconto favoloso del mondo che si fa raccontare dissimulando il mistero della sua origine, riportandolo dai cieli alla superficie del visibile.
In mari differenti, epici o mitologici, sotto diverse composizioni siderali, i personaggi sembrano mossi da brame d’intensità equivalente. Ulisse, che domina la seconda scena, brama il ritorno, Achab protagonista della prima, la balena bianca. Il primo con cristallina malinconia, il secondo con ossessiva mania. Ma entrambi covano in sé il mistero del proprio viaggio, della sua origine e del sentimento d’incertezza, di aporia che li accompagna.
Forse, viene da pensare, proprio in questa ricerca aporetica e senza fine sta l’unità dei brani e dell’opera. E la sua bellezza stuporosa, il suo apparire una volta chiusi gli occhi.
Ogni opera, come questa, è un organismo complesso e fragile, che si allontana quanto più le si avvicina lo sguardo. La sua struttura è esile, e non tollera una pressione ingombrante. Si lascia attraversare placidamente, ma non s’impone, non è assertiva. È ciò che le dà quest’apertura di senso che si ha ascoltandola, il magico incanto, l’ariosa leggerezza che assomiglia alla nostra essenza, alla dolce malinconia che accompagna le nostre rotte e le nostra assenze.
Marinai, profeti e balene forse va preso proprio come un viaggio che in diciannove quadri ci conduce ad approssimare un limite sensibile, una soglia oltre la quale si sente il silenzio da cui con stupore emana il canto, la poesia, il sollievo di un cielo profondo di stelle.
Ascoltarlo mette in una dimensione di familiare lontananza, in un circolo mitico tra l’attesa e il ricordo, in un’interminabile e meravigliosa navigazione su abissi insondabili e sotto cieli silenziosi in compagnia di tutti quei marinai che da migliaia di anni continuano a cercare una rotta tra quello che non è più e quello che non è e non sarà mai. Nudi di fronte al Destino.
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Questo viaggio mitico e sensibile è solo una delle tante rotte nel mare di pagine nate da uno stordimento d’animo; e nasce da un’intertestualità che fa riecheggiare interrogazioni secolari sul fato, archetipiche età dell’oro, meravigliose ricerche, favole antiche di emblematica esemplarità.
Si può dire però che i marinai che popolano questo universo mitologico si assomigliano, che sono tutte figure di titanici ribelli alla Legge della Terra ferma e ai confini prudenti disegnati con saggezza. Sono degli empi, degli ammutinati di Dio, lanciati nell’abisso della Colpa senza più espiazione.
Il profeta Giona prende il mare per fuggire i decreti divini, ma dopo la discesa negli abissi terrificanti del ventre della balena implora la misericordia di Dio, che gliela concede, e poi ne canta le lodi. L’altro profeta biblico, Giobbe, maledice il giorno che è venuto alla luce, la colpa ingiustificata inflitta ai puri, invoca le tenebre, ma quando vede l’occhio del Signore si ripudia e si rassegna alle insondabili sentenze divine.
Ma Achab è già un’altra storia. Achab caccia la balena muta e indifferente, sfida il secolare silenzio del Signore nell’altomare epico e biblico, plumbeo come il cielo, mosso da una necessità che lo eccede e lo inabissa sotto il sudario del mare. Per lui la balena senza colore non è strumento d’espiazione, ma alterità senza più nome da sfidare fin dentro le tenebre dell’abisso, contro ogni profezia. Ormai neanche le debolezze di Lord Jim, o l’innocenza di Billy Bud sfuggono più al naufragio, alla caduta nelle profondità oceaniche come ultimo e umano destino.
Ma poi? Non è sempre stato così? Oltre i confini della linea d’ombra, interiore o esteriore che sia, è lanciato anche il folle volo di Ulisse. Tra le tentazioni e le malie sensuali del Mediterraneo, le isole felici e gli incanti di Calipso, il marinaio archetipico sceglie di essere pienamente umano e vivere fino in fondo il suo destino, la separatezza della sua coscienza oltre il ritorno. La conoscenza ci separa da noi stessi, dalla pienezza, dalla realizzazione del desiderio di verità: è pathos e vocazione intima.
Non nel nostos, nel ritorno a Casa sta la felicità o la pienezza. L’attesa è l’unico luogo in cui il piacere può consistere, ma solo come immagine e speranza di un piacere futuro. E Penelope che tesse e disfa la sua tela ad Itaca ne è l’interprete malinconica. Per lei l’attesa e il ricordo sono il riflesso in cui l’assenza viene dimenticata in un oblio come di sonno, in sogni e illusioni sempre precarie, pronte a diradarsi alle prime luci dell’aurora.
Tutto è sempre passato, e l’Aedo col canto – come Penelope – tesse la memoria del Tempo che anticipa il futuro nel passato. Il canto per un istante incessante ci fa così abitare al riparo di un’illusione; ci fa sentire come la nostra vera casa sia in un luogo inconsistente e meraviglioso tra il nulla e il vento che gonfia le vele nell’altomare aperto.
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Da quando l’uomo, ormai alienato nella sua hybris tecnologica, non ha più bisogno della balena per illuminare la terra, le baleniere non incrociano più gli oceani. Achab è lontano, e della grande balena bianca resta solo un simulacro imbalsamato, un capidoglio posticcio, frammento di un universo sprofondato.
Addomesticata e senza vita, ora l’artista ambulante può mostrare la balena Goliath nelle piazze insieme alla Madonna delle Conchiglie, additare nel loro occhio vacuo lo spazio aperto tra la vita e il niente, l’itinerario verso il fondo del mar. Con un’immoderata fantasia può rapirci con siparietti d’avanspettacolo abissale, coreografie anni trenta e corpo di ballo di sirene. Portarci nel fondo oscuro dell’oceano tra complicati amori polposi e troppe braccia per abbracci mai abbastanza avvolgenti. Oppure scaldarci con barili di rum e cantare balene sontuose e balene impagliate, ciclopi beffati e creature del mare dimenticate da Noè. L’abisso è ormai sgombro di terribilità, abitabile da un’immaginazione liberata.
Queste sono solo divagazioni liminari al sonno, rotte illusorie attraverso Marinai, profeti e balene. Ma in fondo, non solo sul mare, anche qui sulla terra ferma la vita non è che un’incerta illusione. Basta viaggiare. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi andare.